Quando le femmine non potevano correre

É andata così: siamo nel 1982 e io ho 10 anni. É il mio anno: tocca a me andare in vacanza con la zia, che ha 46 anni e non si è ancora sposata. Per la prima volta prendo la nave e attraverso quel mare che mi separa dal mondo. Non m’importa che sia verde cristallino: mi isola, mi affoga di solitudine. Poi prendiamo tre treni e un autobus di provincia e in 2 giorni arriviamo a Ossana. É un paese mille volte più piccolo del mio, ma sembra di essere catapultati nel mondo di Heidi. Prati verdi, bambini biondi e distanze cortissime. Puoi andare a piedi in un altro paese e poi un altro ancora. Hanno nomi strani: Cusano, Pellizzano, Mezzana. Puoi giocare per strada perché in tutto il giorno passeranno sì e no cinque macchine. Però se ti scappa il pallone sono guai: devi correre più veloce della forza di gravità, sennò la palla rotola giù nella discesa. A Ossana c’è solo una chiesa, un cimitero, un bar, un parco verdissimo e poche case di montagna. Ma a Cusano c’è la festa e mio cugino Carlo correrà alla gara campestre. Voglio correre anch’io, ma lui mi dice che le femmine non possono partecipare. Non posso crederci, è un’ingiustizia! Perché, le femmine non ce le hanno due gambe? Allora vado a Cusano e chiedo spiegazioni al banchetto dove ci si deve iscrivere.

– Mio cugino dice che le femmine non possono partecipare! Vorrei sapere perché?!

La signora ride di gusto.

– Certo che possono partecipare!

– Quanto costa l’iscrizione?

– 500 lire.

– Allora torno subito.

Faccio la salita che separa Cusano da Ossana di corsa. Io non ho mai partecipato a nessuna gara e non m’importa nemmeno di correre. M’importa solo che le femmine possano fare esattamente le stesse cose dei maschi. O quasi. E se è vero che non posso pisciare in piedi, contro un albero, almeno posso correre. Torno a casa trafelata.

– Zia dammi 500 lire!

– A che ti servono?

– Devo iscrivermi alla gara campestre.

Mi ficco le 500 lire in un calzino e torno alla festa di corsa (così mi alleno). Poi mi ricordo che io non ho nemmeno le scarpe da ginnastica. Me le presterà Anna, la sorella di Carlo, ma ha due numeri in meno di me. É mezzogiorno, la gara è prevista nel tardo pomeriggio. Torno a casa, sempre in salita.

– Che ne hai fatto delle 500 lire? – Chiede zia – Carlo dice che la corsa è solo per i maschi!

– Ai maschi si credono anche le bugie! – protesto.

Carlo è furioso. Torniamo alla festa, per partecipare. Lui va avanti e non mi aspetta. Alla partenza mi appiccicano un numero al petto, con uno spillo. Si corre per un chilometro o due. Fischio d’inizio. Tutti scattano in avanti e scatto anch’io. Mi ricordo che durante il percorso cado in una grande pozzanghera. Però non m’importa. Mi rialzo: sono una femmina e posso correre! Questo è il mio pensiero felice. All’arrivo mi strappano il numero. Si sparge la voce che Carlo sia arrivato primo. Torno a casa, lurida di fango. Dopo averla pregata in tredici lingue del mondo, zia mi permette di andare alla premiazione, prevista per la sera, ma solo sotto la supervisione di Carlo. Dal palco annunciano il primo assoluto: mio cugino sale su e fiero impugna la sua coppa. Si becca gli applausi e le ovazioni. Poi l’altoparlante dice: Prima classificata delle femmine Livi Barbara. L’unica cosa che penso è: Toh! Una che si chiama quasi come me! Ma le ragazzine che mi conoscono per nome e cognome mi dicono:

– Vai! Guarda che sei tu!

– Ma no, dico, sono pure caduta nella pozzanghera! E poi io mi chiamo Lixi Barbara.

Ma loro insistono che non c’è nessuna nella Valle che si chiami così. Mi spingono a forza sul palco. Io, emozionata fino alle vesciche dei piedi, che le scarpe di Anna mi hanno procurato, mi lascio mettere la medaglia al collo. E non la smetto più di ringraziare, mentre discendo gli scalini, per tornare nella folla. Allora dal palco mi richiamano: E la coppa, non la vuoi? 

Da quel giorno, nel piccolo mondo che abito, non ho mai smesso di lottare per i diritti delle donne e di battermi per le differenze di genere.